IL TRIBUNALE Riunito in sede di tribunale per il riesame ex art. 310 del c.p.p.; Sciogliendo la riserva di cui al verbale di udienza in camera di consiglio in data 4 gennaio 1991. Visto l'appello proposto dalla difesa di Donatella Doria avverso l'ordinanza in data 1 dicembre 1991 con cui il g.i.p. presso il tribunale in sede respingeva la richiesta di scarcerazione per cessazione di efficacia della misura cautelare della custodia in carcere ai sensi dell'art. 27 del c.p.p.; Ha pronunciato la seguente ordinanza. Con ordinanza del 14 luglio 1990 il g.i.p. presso il tribunale di Genova convalidava l'arresto di Donatella Doria avvenuto nella flagranza del reato di cui agli artt. 110 del c.p. e 71 della legge n. 685/1975 (commesso in concorso con il marito, Raffaele Chiaravallotti) e contestualmente applicava alla stessa la misura cautelare della custodia in carcere. In data 26 luglio 1990 il p.m. presso il tribunale di Genova trasmetteva ex art. 371 del c.p.p. copia degli atti al p.m. presso il tribunale di Milano, che li aveva richiesti a seguito di informativa della questura di Milano relativa al rinvenimento di un quantitativo di eroina nella abitazione della Doria e di Chiaravallotti in localita' Arlate (Como); con lo stesso provvedimento di trasmissione di copia degli atti ex art. 371 del c.p.p. il p.m. di Genova segnalava che era in corso la consulenza tecnica sulla sostanza stupefacente sequestrata a Doria e Chiaravallotti in data 11 luglio 1990. In seguito il g.i.p. presso il tribunale di Genova emetteva vari provvedimenti nell'ambito del procedimento instauratosi in quell'ufficio con il n. 3182/90 r.g. notizie di reato (in data 8 agosto 1990 disponeva visita specialistica sulla persona della Doria, quindi disponeva una consulenza medica sulla compatibilita' delle sue condizioni di salute con la prosecuzione della carcerazione, e in data 21 settembre 1990 respingeva la richiesta di revoca della misura cautelare della custodia in carcere avanzata in relazione alle condizioni di salute della Doria). Il 3 ottobre 1990 il p.m. presso il tribunale di Milano richiedeva la trasmissione degli atti ai sensi dell'art. 54 del c.p.p.: dalle indagini effettuate in Milano circa un vasto traffico di sostanze stupefacenti facenti capo a Morabito Santo Pasquale emergeva che il Chiaravallotti aveva acquistato in Milano il quantitativo di stupefacente sequestrato a lui e alla Doria in data 11 luglio 1990, tanto che il 2 ottobre 1990 era stato emesso provvedimento restrittivo anche nei confronti del Chiaravallotti; stante la connessione tra il procedimento penale pendente a Milano e quello instauratosi a Genova, il p.m. di Milano richiedeva appunto la trasmissione degli atti ex art. 54 del codice di procedura penale. Non vi e' agli atti il provvedimento con cui il p.m. presso il tribunale di Genova ha trasmesso a Milano gli atti ai sensi dell'art. 54 del c.p.p., anche se da vari provvedimenti quali un invio, per unione agli atti, da parte del p.m. di Genova del decreto di liquidazione spese per la consulenza tossicologica, e una ordinanza del g.i.p. presso il tribunale di Milano) si evince che gli atti furono trasmessi il 3 ottobre 1990. In data 10 ottobre 1990 il procedimento a carico di Doria e Chiaravallotti era iscritto al registro modello 21 presso la procura della Repubblica di Milano e in data 11 ottobre 1990 era disposta la riunione per connessione tra tale procedimento e quello gia' pendente presso quella procura. In data 9 novembre 1990 il g.i.p. presso il tribunale di Milano respingeva l'istanza di revoca della misura cautelare avanzata in relazione alle condizioni di salute della Doria. In data 28 novembre 1990 la difesa della Doria presentava istanza di scarcerazione per cessazione di efficacia della misura cautelare disposta dal g.i.p. presso il tribunale di Genova il 12 luglio 1990 ai sensi dell'art. 27 del c.p.p., non essendosi provveduto a norma dell'art. 292 del c.p.p. entro venti giorni dalla trasmissione degli atti ex art. 54 del c.p.p. Il g.i.p. respingeva tale istanza con ordinanza in data 1 dicembre 1990, avverso la quale era proposto appello ex art. 210 del c.p.p. davanti a questo tribunale. Nei motivi addotti a sostegno dell'appello la difesa di Donatella Doria lamenta in primo luogo che il g.i.p. abbia ritenuto la applicabilita' dell'art. 27 del c.p.p. solo nel caso di pronuncia giurisdizionale declinatoria di competenza e non anche nella ipotesi di trasmissione degli atti, ai sensi dell'art. 54 del c.p.p., da parte del pubblico ministero procedente nella fase delle indagini preliminari all'ufficio del p.m. presso il giudice competente, atteso che, anche in quest'ultimo caso, il titolo detentivo e' comunque emesso da un giudice pacificamente incompetente. Nei motivi di appello si solleva inoltre, nell'ipotesi in cui questo tribunale ritenesse condivisibile l'interpretazione dell'art. 27 del c.p.p. espressa nell'appellato provvedimento, la questione della illegittimita' della norma suddetta, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione. Quanto al primo motivo di appello - relativo alla applicabilita' del disposto dell'art. 27 del c.p.p. anche al caso di trasmissione degli atti a norma dell'art. 54 del c.p.p. - questo tribunale ritiene condivisibile la motivazione dell'appellata ordinanza, che fa riferimento alla sentenza della Corte di cassazione, sezione quinta penale, in data 27 giugno 1990, n. 2700. L'art. 27 del c.p.p. prevede che "le misure cautelari disposte dal giudice che contestualmente o successivamente, si dichiara incompetente per qualsiasi causa cessano di avere effetto se, entro venti giorni dalla ordinanza di trasmissione degli atti, il giudice competente non provvede a norma degli artt. 292, 317 e 321". E' da notare che la espressione "successivamente" sembra riferirsi al solo caso della declaratoria di incompetenza pronunciata in sede di udienza preliminare (il che implica la applicabilita' dell'art. 27 del c.p.p. ai soli casi di declaratoria di incompetenza pronunciata al momento di emettere la misura cautelare, cosi' come previsto dall'art. 291 cpv. del c.p.p., o in sede di udienza preliminare), posto che nel rito accusatorio che connota il nuovo processo il g.i.p. - durante le indagini preliminari condotte dal p.m. ai sensi dell'art. 327 del c.p.p. e fino all'udienza preliminare - e' "giudice senza fascicolo", ossia "giudice ad acta", dato che riceve soltanto di volta in volta gli atti dal p.m. per provvedere sulle singole richieste delle parti e provvede con singoli provvedimenti in relazione ai quali, e soltanto in riferimento ad essi, verifica di volta in volta la propria competenza, cosi' come e' del resto previsto dal primo e dal secondo comma dell'art. 22 del c.p.p.: nella parte della relazione finale al codice di procedura penale illustrativa dei primi due commi della norma suddetta si afferma che l'incompetenza dichiarata dal g.i.p. nel corso delle indagini preliminari (e quindi prima della udienza preliminare) ha effetto "soltanto ai fini del provvedimento per il quale e' stato richiesto il suo intervento" ed e' stato pertanto previsto che in tal caso gli atti vengano ritrasmessi al p.m. senza pregiudizio di "una diversa valutazione della competenza che lo stesso giudice puo' compiere ove venga successivamente richiesto il suo intervento" e "senza pregiudizio della eventuale prosecuzione delle indagini da parte del p.m.". Da cio' consegue che, anche se il g.i.p. presso il tribunale di Genova ha emesso vari provvedimenti nel procedimento instauratosi a carico di Doria e Chiaravallotti (con cio' implicitamente riconoscendosi competente) correttamente il p.m. presso quel tribunale ha disposto la trasmissione degli atti ai sensi dell'art. 54 del c.p.p., non essendone certo impedito dalla implicita affermazione di competenza ravvisabile nella emissione di provvedimenti da parte del "giudice ad acta". D'altro canto, analogamente a quanto ritenuto dalla sentenza della Corte di cassazione, sez. quinta penale, 27 giugno 1990, si evince dallo stesso tenore letterale dell'art. 27 del c.p.p. come tale norma presupponga una pronuncia "giurisdizionale" declinatoria della competenza: cio' non solo perche' la norma parla di "giudice", ma anche perche' tratta del caso della declaratoria di incompetenza emessa dal giudice che ha disposto le misure cautelari, il quale giudice, nell'ambito del nuovo processo penale, non potra' mai individuarsi nel p.m. Ne consegue che il disposto dell'art. 27 del c.p.p. non puo' trovare applicazione nel caso di translatio degli atti disposta a norma dell'art. 54 del c.p.p., atto processuale di un organo sfornito di poteri giurisdizionali e parte nel processo. Quanto alla eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 27 del c.p.p. pare a questo tribunale che la questione sia non solo rilevante nel caso di specie (dato che si e' ritenuto non applicabile il disposto dell'art. 27 del c.p.p. al caso di trasmissione degli atti ai sensi dell'art. 54 del c.p.p., anche se il g.i.p. presso il tribunale di Milano non ha provveduto a norma dell'art. 292 del c.p.p. entro i venti giorni dalla trasmissione degli atti relativi alla Doria), ma anche non manifestamente infondata per le ragioni che verranno di seguito esposte. Nella relazione al codice si precisa che con la norma di cui all'art. 27 del c.p.p. si e' fatto riferimento a tutte le categorie di incompetenza, superando il sistema processuale previgente caratterizzato dalla netta distinzione - sotto il profilo della perdita o meno di efficacia degli atti compiuti dal giudice incompetente - tra incompetenza per materia e incompetenza per territorio: negli stessa relazione si legge ancora che il "principio della conservazione degli atti" assunti dal giudice incompetente (principio che riguarda anche gli atti diversi da quelli applicativi di misure cautelari, per i quali il legislatore ha provveduto a norma dell'art. 26 del c.p.p.) in un sistema nel quale le limitazioni all'operativita' della connessione renderanno difficili e rari i possibili abusi, giova alla speditezza processuale ed evita pericolose "strumentalizzazioni" da parte degli imputati meno sprovveduti. Fermo restando il "principio della conservazione degli atti" si e' dunque stabilito che la misure disposte dal giudice che dichiara la propria incompetenza, qualunque sia il tipo di competenza declinata, "cessano di avere effetto se, entro venti giorni dalla ordinanza di trasmissione degli atti, il giudice competente non provvede a norma degli artt. 292, 317 e 321". Orbene, ritiene questo tribunale che nel caso di specie, in cui si tratta di ordinanza applicativa di misura cautelare personale (ma il ragionamento puo' essere applicato, mutatis mutandis, anche alle ordinanze applicative di sequestro conservativo o di sequestro preventivo ex artt. 317 e 321 del c.p.p.) la ratio di questa norma consista nell'assicurare all'indagato che il giudice competente verifichi, attraverso l'ordinanza di cui all'art. 292 del c.p.p., la sussistenza delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l'indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi della loro rilevanza, ossia, in sostanza, la sussistenza delle condizioni che, ai sensi degli artt. 273 e 274 del c.p.p., legittimano l'applicazione della misura cautelare personale. Tale norma ha dunque il fine di garantire all'indagato che il giudizio sulla applicabilita' della misura cautelare venga nuovamente espresso dal giudice competente; e che la ratio della norma consista proprio nell'assicurare la detta garanzia appare evidente laddove si consideri che, in mancanza di un provvedimento preso dal giudice competente a norma degli artt. 292, 317 e 321 del c.p.p. entro venti giorni dalla ordinanza di trasmissione degli atti, e' prevista la perdita di efficacia della misura disposta dal giudice incompetente: tale previsione ha significato soltanto in vista della suddetta garanzia dell'indagato e non certo in relazione al potere del p.m. o del g.i.p. o del giudice del dibattimento di rivalutare la opportunita' di applicazione di quella misura o di una diversa, atteso che, ai sensi dell'art. 299 del c.p.p. il p.m. puo' in qualunque momento richiedere al giudice la revoca o la sostituzione delle misure cautelari, ed il giudice puo' provvedervi anche d'ufficio quando assume l'interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare o quando e' richiesto della proroga del termine per le indagini preliminari o dell'assunzione di incidente probatorio (ossia quando agisce come giudice ad acta), nonche' quando procede all'udienza preliminare o al giudizio. Se dunque la ratio dell'art. 27 del c.p.p. deve essere individuata nel garantire all'indagato che il giudizio circa l'applicabilita' della misura cautelare venga espresso dal giudice competente (che e' il giudice naturale precostituito per legge) e se e' vero che tale norma si applica soltanto nei casi in cui vi sia stata una pronuncia giusdizionale declinatoria della competenza e non anche una trasmissione degli atti ai sensi dell'art. 54 del c.p.p., appare quantomeno fondato ritenere che l'art. 27 del c.p.p. contrasti con gli artt. 3 e 25 della Costituzione, posto che non prevede analoga garanzia per l'indagato nel caso che, durante le indagini preliminari, vi sia stata translatio degli atti a norma dell'art. 54 del c.p.p. La questione d'altra parte non puo' essere risolta affermando che il rinnovato giudizio ai sensi dell'art. 292 del c.p.p. potrebbe essere richiesto dalla parte anche immediatamente dopo la trasmissione degli atti ex art. 54 del c.p.p. all'ufficio del p.m. presso il "giudice competente" (secondo il letterale tenore dell'art. 54 del c.p.p.). Cio' non solo perche' non puo' ammettersi un effetto negativo per l'indagato, quale la perdita della garanzia di cui sopra, derivante dalla sua inerzia nel richiedere al giudice competente a norma dell'art. 54 del c.p.p. di riesaminare la sua posizione, ma, soprattutto, perche' potrebbe verificarsi l'ipotesi in cui il g.i.p. presso il cui ufficio e' il p.m. che ha ricevuto gli atti ex art. 54 del c.p.p. - richiesto di pronunciarsi a norma degli artt. 292 del c.p.p. o anche degli artt. 317 e 324 del c.p.p. - declini la propria competenza ai sensi dell'art. 22, primo e secondo comma, del c.p.p. e ritrasmetta gli atti al p.m. presso il suo ufficio: poiche', per il disposto dell'art. 22, secondo comma, del c.p.p., tale ordinanza produce effetti limitatamente al provvedimento richiesto e non pregiudica la possibilita' per il p.m. di proseguire le indagini preliminari (con conseguente conservazione degli atti presso il suo ufficio), l'indagato si troverebbe nella situazione di non potere esercitare il diritto conferitogli dal terzo comma dell'art. 299 del c.p.p. Ne' si puo' ritenere che in tal caso l'indagato possa rivolgersi al g.i.p. che ha emesso la misura cautelare: da un lato perche' nell'ipotesi di translatio ex art. 54 del c.p.p. gli atti sono normalmente trasmessi in originale e quindi il p.m. presso il g.i.p. che ha emesso la misura cautelare non e' piu' nel possesso materiale degli atti; dall'altro lato perche' anche in ipotesi di una trasmissione della sola copia degli atti con prosecuzione delle indagini preliminari anche da parte del p.m. che il ha trasmessi (ipotesi in se' non ammissibile, dato che in tal caso i rapporti tra i due uffici del pubblico ministero sarebbero regolati a norma dell'art. 371 del c.p.p. e non a norma dell'art. 54 del c.p.p.), potrebbe verificarsi il caso di provvedimenti confliggenti emessi rispettivamente dal g.i.p. presso il cui ufficio e' il p.m. che ha trasmesso gli atti e dal g.i.p. presso il cui ufficio e' il p.m. che li ha ricevuti ex art. 54 del c.p.p.: potrebbe infatti verificarsi il caso in cui il g.i.p. che ha emesso la misura cautelare ritenga, su richiesta dell'indagato, di revocarla o di disporne una meno afflittiva, mentre il g.i.p. presso il cui ufficio e' il p.m. che ha ricevuto gli atti ritenga, su richiesta del p.m., di applicare invece una misura maggiormente afflittiva. E' evidente, a parere di questo collegio, un vuoto normativo che, nel caso di trasmissione degli atti ai sensi dell'art. 54 del c.p.p., pregiudica il diritto dell'indagato ad esercitare il diritto attribuitogli dall'art. 299, terzo comma, del c.p.p., e, di conseguenza, il diritto sancito dall'art. 24 della Costituzione. Questo collegio ritiene dunque non manifestamente infondata la questione della illegittimita' dell'art. 27 del c.p.p., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, questione che appare nel caso di specie rilevante, atteso che il collegio non ritiene applicabile la norma di cui all'art. 27 del c.p.p., cosi' come attualmente formulata, all'ipotesi in cui il g.i.p. presso il cui ufficio si trova il p.m. che ha ricevuto gli atti ai sensi dell'art. 54 del c.p.p., non provveda a norma dell'art. 292 del c.p.p., entro venti giorni dalla trasmissione degli atti.